Innovation

Una bruciante sfocatura

giovedì, 21. gennaio 2021

Da Paola De Martin, traduzione: Vincenzo Todisco,

 

Pubblicato in tedesco il 21 settembre 2018

„Si capisce che per esempio ai professori all’ETH di Zurigo provenienti dall’estero dovremmo concedere il permesso di venire in Svizzera con i loro bambini, ma non di certo ai lavoratori nei cantieri e nell’agricoltura o al personale della gastronomia. Non c’è bisogno, tanto di quella gente lì ce n’è abbastanza.”

– Luzi Stamm, rappresentate dell’UDC, in un’intervista per la radio della Svizzera tedesca SRF, dopo l’accettazione dell’iniziativa popolare dell’UDC ‘Contro l’immigrazione di massa‘, 2014.

L’autrice, oggi dottoranda presso il Politecnico di Zurigo ETH, all’età di undici anni insieme a suo padre, Rodolfo De Martin, muratore, ad una festa degli emigranti nei paraggi di Zurigo (1976). Fotografia ©: Rosa Fratta, madre dell’autrice e casalinga.

Stimata Consigliera federale Signora Sommaruga

Le scrivo, Signora ministra della giustizia di questo paese, una lettera aperta per esprimere una richiesta di natura pubblica e politica che si è incisa nella mia personale storia di vita. Questa storia determina i miei ricordi, il mio sentire e pensare, ma ho impiegato molto tempo per trovare un linguaggio sincero, capace di esprimere questi sentimenti, perché fino ad oggi la politica svizzera non si è ancora impegnata per trovare quel linguaggio sincero. Per questo chiamo questa storia la storia della nostra bruciante sfocatura.

1984

La prima volta che ho percepito questa bruciante sfocatura è stato pochi mesi prima del mio diciannovesimo compleanno. Era poco prima della maturità liceale e stavo svolgendo le pratiche per ottenere la naturalizzazione e il passaporto svizzero. Dovevo indicare il momento a partire dal quale fossi residente in Svizzera. I miei genitori mi avevano sempre detto che in quanto figlia di stagionali io non avevo avuto il permesso di residenza in Svizzera e che per questo nell’inverno del 1965/66, all’età di pochi mesi, mi avevano affidata a mio zio e mia zia in Italia – grazie a Dio. Poi poco più di un anno dopo sarebbe nata mia sorella, allo stesso tempo mio padre avrebbe ottenuto il permesso di residenza annuale ed io nell’agosto 1967 sarei entrata legalmente in Svizzera in compagnia di mia zia. Ma nell’estratto dell’anagrafe della città di Zurigo al posto del mese di agosto 1967 c’era scritto novembre 1968 – una differenza di quindici mesi. Chiesi delle spiegazioni ai miei genitori, ma loro risposero in modo evasivo. Continuai a chiedere. I miei genitori caddero in contraddizioni, si arrabbiarono. Lasciai pedere.

1996

12 anni dopo fu mia madre a fornirmi lo spunto decisivo. In un cinema zurighese davano ‘Il vento di settembre’, il sequel di ‘Siamo Italiani – Die Italiener’, il delicato documentario in bianco e nero del 1965 di Alexander Seiler e June Kovach. Il nuovo film ‘Il vento di settembre’ del 1996 era un ritratto cinematografico a colori – insolitamente tenero e allo stesso tempo opprimente – delle stesse famiglie di lavoratori stranieri, soltanto 30 anni dopo. Guardai il film con i miei genitori e mia sorella. Quando uscimmo dalla sala, fummo presi da un sentimento di malinconia, nessuno sembrava voler dire alcunché. Pensavo dipendesse dal fatto che poco prima i miei genitori, dopo quasi una vita trascorsa in Svizzera, erano tornati in Italia. In fondo non si era trattato di un ritorno, ma di una seconda e involontaria emigrazione che aveva procurato a mia madre molta sofferenza. E allora fu proprio lei a rompere il silenzio e mi disse: Eh, sì, che tristezza, che cosa non abbiamo dovuto sopportare, abbiamo fatto passare clandestinamente il confine ai nostri bambini, come ladri, li abbiamo nascosti. Pensai: noi – chi intendeva mia madre dicendo “noi”? Non osai fare domande, ma i fatti sommersi e taciuti chiedevano di venire a galla. Cominciai a restringere il campo. A casa cercai una fotografia che pochi anni prima avevo fatto nel caseggiato in cui vivevano i miei genitori a Zurigo. Sulla foto si vedono diversi bambini con i quali per anni mia mamma aveva giocato e studiato al tavolo della cucina perché non andavano a scuola. Erano questi ed altri bambini, mi ricordai, che entravano e uscivano, non si sapeva mai quando e perché – mi ci ero talmente abituata che non mi venne alcun sospetto. Quei bambini non dovevano dare nell’occhio, questo lo avevo capito, e noi non ci eravamo per niente inquietati del fatto che erano tenuti nascosti nel caseggiato. Li avevo fotografati seguendo un istinto che la loro presenza in una foto potesse avere un significato particolare per me. E benché sapessero che dovevano rimanere invisibili, facevano comunque quello che la grande Paola diceva loro: mettetevi lì, fate presto, dai, che vi faccio una foto! Causa la fretta, la foto venne sfocata e questa sfocatura allora mi diede fastidio. Dopo che mia madre aveva messo in ballo questo “noi”, oggi mi chiedo: non era proprio la sfocatura – immortalata su una fotografia – l’esatta espressione di come mi sentivo? Volevo e non volevo capire qual era il destino che mi legava a quei bambini.

2006

Trascorsero altri dieci anni prima che giungesse il momento in cui capì. Assistevo a una lezione sulla storia sociale ed economica dell’Università di Zurigo. L’argomento della lezione era l’iniziativa Schwarzenbach e la discussione ruotava attorno all’inforestieramento degli anni settanta, all’adesione della Svizzera all’ONU nel 1992 e all’abolizione definitiva dello statuto dello stagionale nel 2002 legata alla libera circolazione all’interno dell’UE. La lezione trattava la violazione dei diritti umani subita dagli stagionali unita al divieto di far venire la famiglia e al fatto che migliaia di bambini avevano dovuto vivere nascosti. Il cuore mi batteva a mille. E solo in quel momento mi resi perfettamente conto che la differenza tra l’agosto 1967 e il novembre 1968 aveva qualcosa a che vedere con il mio essere nascosta.

La bruciante sfocatura procurata dall’omertà è espressione del tentativo di bandire la tragedia e al contempo di darne testimonianza. Da decenni in questo paese migliaia di ex famiglie di stagionali e migliaia di esponenti della seconda generazione, le cosiddette Secondas e i cosiddetti Secondos, si sentono oppressi da un sentimento di vertigine: siamo qui, forse, da una prospettiva esterna addirittura bene integrati, forse addirittura naturalizzati – ma malgrado ciò questa ferita nascosta ci divide come una parete invisibile gli uni dagli altri e da coloro che non hanno dovuto subire questa violenza. Fino alle crisi del petrolio degli anni settanta in Svizzera viveva mezzo milione di italiani, e ancora oggi la comunità italiana rappresenta la minoranza più numerosa. Tutti ci conoscono, tutti conoscono un pensionato italiano qualunque o uno dei suoi discendenti, ma cosa sa l’opinione pubblica del nostro trauma? Da questo isolamento possiamo solo essere liberati se l’opinione pubblica vi prende parte. Serve un vero confronto tra i diversi livelli d’esperienza fino ad oggi rimasti separati – a genuine confrontation between two levels of experience –, come afferma James Baldwin in merito alla discriminazione raziale negli Stati Uniti. Un vero confronto, vorrei sottolinearlo, è un fatto pubblico che va al di là dell’abolizione dello statuto dello stagionale e della fiducia negli effetti consolatori del benessere materiale, al di là anche del fatto di puntare sul multiculturalismo. Credere che questo basti a guarire le ferite sociali che hanno causato la violazione dei diritti umani è stata la grande illusione degli ultimi decenni. Questa illusione si è dissolta con l’approvazione dell’iniziativa contro l’immigrazione di massa del 9 febbraio 2014.

2014-1965

Il paragrafo nel testo dell’iniziativa recita: „Il diritto al soggiorno duraturo, al ricongiungimento familiare e alle prestazioni sociali può essere limitato.“ Il diritto umano all’unità della famiglia secondo il nuovo testo costituzionale va concesso in funzione degli „interessi globali dell'economia svizzera“, come se un diritto umano fosse un privilegio. La citazione iniziale di Luzi Stamm dimostra che il diritto umano dovrebbe essere concesso secondo il seguente principio: a chi ha soldi e prestigio si concede anche il diritto umano. Mia madre fece cenno a questo dibattito. Ne aveva sentito parlare alla televisione italiana e di punto in bianco mi chiese come stavo. Io, sorpresa dal modo così insolitamente schietto di parlarmi, le risposi: Mamma, hanno reinserito nella costituzione la possibilità di un ricongiungimento familiare limitato, non sto per niente bene. E lei: Sì, lo so, una cosa terribile. A partire da quel momento ci fu un periodo di circa un anno in cui soprattutto mia madre e qualche volta anche mio padre erano disposti a parlarmi del trauma da loro subito. Vorrei insistere su questo: si trattava in primo luogo del loro trauma perché io ero troppo piccola per rendermi veramente conto di quello che ci hanno fatto. Mi raccontarono dell’umiliante arbitrarietà dei funzionari nel concedere i permessi di soggiorno, della paura di essere scoperti e in seguito a ciò di perdere il posto di lavoro se mia sorella ed io in casa piangevamo forte, della dipendenza e gratitudine nei confronti del datore di lavoro di mio padre perché non li ha denunciati alla polizia, del viaggio di mia madre senza di me, la sua prima bambina, nemmeno tre mesi, di ritorno dall’Italia alla Svizzera, dove c’era lavoro, dove grazie al lavoro si potevano guadagnare dei soldi, dove in inverno gli appartamenti erano riscaldati. Misi da parte la mia paura di metterla alle strette e chiesi con cautela: Mamma, come fu il viaggio? Abbassò lo sguardo, e non dimenticherò mai come disse abbassando la voce: terribile.

1965-2018

Terribile, Signora Consigliera federale, sopportare l’impotenza dei propri genitori impediti dalla legge di accudire i propri bambini. Questo è il mio trauma. L’impotenza del resto poteva essere talmente grande che qualche volta addirittura sembrava meglio credere che la colpa fosse nostra per il destino che ci era stato imposto. Questo meccanismo lo ritrovo oggi nelle mie amiche e nei miei amici della Siria costretti a fuggire. Nei miei genitori lo stesso meccanismo si manifestò un anno dopo l’accettazione dell’Iniziativa popolare federale ‘Contro l’immigrazione di massa’ quando un giornalista del quotidiano italiano “Il Corriere della Sera” voleva avere un mio commento personale in merito ai dibattiti sull’iniziativa. Chiamai subito mia madre, volevo verificare determinati dati e fatti. Pensavo che ne volesse parlare con me. Disse, con voce cupa e arrendevole: per favore lasciami stare, non ne posso più, a quell’epoca eravamo semplicemente stupidi e male informati, cosa ne poteva la Svizzera? Niente. Disse anche: non mi piace quando gli italiani parlano male della Svizzera, perché si danno tutte quelle arie, non sono meglio nemmeno un po’, i giornalisti vogliono solo abusare di te per uno scandalo che fa cassa. E mio padre disse la stessa cosa prima di rimettere giù il telefono: Ma cosa vuoi ancora, eri una di quei clandestini, sì, che dovevamo nascondere, sono cose che succedono.

Sono cose che succedono, Signora Consigliera federale, ancora oggi. Quanti genitori oggi nascondono i loro bambini perché vengono spinti nell’illegalità? Dimoranti temporanei, rifugiati, Sans Papiers – e stando al nuovo articolo costituzionale, presto anche dei nuovi stagionali, anche se oggi forse li si chiamerà diversamente. Per questo mi rivolgo a Lei con questa lettera pubblica. Oggi gli italiani vengono considerati dei migranti modello e stranieri preferiti, è solo un trucco per separarci da coloro che adesso vivono la stessa esperienza vissuta da noi all’epoca. Ma quanto è grande il bisogno di sempre nuovi clandestini che dimostra di avere questo paese, non fa in tempo a svuotare e digerire gli uni che già sono pronti i prossimi. Io con questa lettera mi assumo le mie responsabilità, affinché tutto questo finisca, Signora Consigliere federale. Quante sono le persone costrette a vivere una simile esperienza, ma che non parlano perché parlare è troppo doloroso senza la protezione di una Svizzera ufficiale, che sia disposta ad assumersi le proprie responsabilità per la violenza che è stata perpetrata. Che non parlano perché parlare è troppo doloroso senza un impegno pubblico per un linguaggio sincero e condiviso?

Questo linguaggio manca a noi tutti, anche a coloro che non devono sopportare il peso di un trauma. Consideri che, Signora Consigliera federale, la maggior parte degli amici e conoscenti in Svizzera tace imbarazzata quando voglio parlare di quello che ho subito e cambia subito argomento. Non chiedono di potere saperne di più. Sembra che non riescano a collocare bene ciò che dico, è un qualcosa che si pone al di fuori della loro immaginazione. Un’amica mi ha detto: certo, vedo che non stai mentendo, Paola, ma d’altra parte non riesco a credere veramente che sia potuto accadere qualcosa del genere. Chi accetta di parlarne, lo fa con un sottofondo di impazienza: ho capito, adesso però basta. Un collega attivo nel campo dell’arte ha cercato di rassicurarmi spiegandomi che queste cose succedono anche altrove e un’altra amica affermando che il nuovo paragrafo della Costituzione non andava preso alla lettera, ma serviva soltanto ad innescare la prossima iniziativa dell’UDC, ancora più radicale, quella per l’autodeterminazione costituzionale diretta contro l’impegno svizzero alla Convenzione dei diritti umani. Ma che consolazione.

Dei professori che volevo invitare a lanciare un progetto di ricerca su larga scala mi hanno detto un po’ increduli che fino quel momento non avevano mai sentito parlare di questo argomento. Uno di loro ha ritenuto necessario spiegarmi che lo statuto dello stagionale sottostava al principio di rotazione, con l’impedimento del ricongiungimento familiare si voleva evitare che gli stranieri si integrassero. Come se non lo sapessi. Io, e questo per me è sempre stato un fatto evidente, mi sono integrata malgrado ciò e più tardi ho dovuto anche subire il discorso paternalista sugli stranieri che non riescono ad integrarsi – o l’insinuazione impertinente: che non si vogliono integrare. Prima ci mettono i bastoni tra le ruote e poi si spendono tante parole sulle difficoltà che incontriamo per superare queste avversità. Alla fine mi sono rivolta a due persone che si adoperano per fare chiarezza sulla storia dei bambini collocati a servizio. Mi hanno detto che sì, dopo i bambini della strada e i bambini collocati a servizio avevano cercato con insistenza un altro progetto di carattere storico legato ai bambini, ma che semplicemente non si erano imbattuti in questa tematica – ma poi ad ogni modo hanno segnalato il loro disinteresse per ciò che alla fine hanno definito il mio tema. Hanno detto che per loro era un argomento di scarso interesse storico, anche perché troppo politico, e non lo consideravano nemmeno molto interessante dal punto di vista della maggioranza della popolazione svizzera, visto che concerneva gli stranieri. E a quel punto ho capito quanto grandi fossero ancora le resistenze per fare chiarezza sull’argomento.

Il mio tema? Non interessante dal punto di vista della maggioranza della popolazione svizzera? Non sono d’accordo. Se la maggioranza della popolazione svizzera pensa che le violazioni dei diritti umani nei confronti degli stranieri in Svizzera non sia un tema svizzero, allora qualcosa deve cambiare. Dico volutamente deve, Signora Consigliera federale, Lei sa cosa intendo. Perché io non mi pongo come supplicante di fronte alla rappresentanza politica della Svizzera, ma come richiedente. Anche se il mio io ha un legame flebile con decine di migliaia di altri che adesso non si esprimono in questo modo, io finalmente devo farlo perché non abbiamo tempo all’infinito per guarire le nostre ferite sociali. Io chiedo:

  1. che la sorte dei bambini di stagionali costretti alla clandestinità e il conseguente trauma subito dalle loro famiglie e dalla loro comunità in Svizzera diventi oggetto di un vasto e ben gestito dibattito storico su scala pubblica e promosso dal mondo politico;

  2. che le violazioni dei diritti umani subite dagli stagionali siano riconosciute e scusate pubblicamente dalla più alta rappresentanza politica della Svizzera, anche se secondo la legge di allora queste violazioni si sono verificate in modo “legale”. Serve un gesto simbolico di scuse, non basta ringraziare i lavoratori stranieri di allora per il loro contributo alla costruzione della Svizzera;

  3. che si creino le condizioni affinché chi ha subito un tale sopruso venga risarcito finanziariamente. I traumi hanno consumato le nostre forze, quelle stesse forze che mancavano quando ne avremmo avuto bisogno per vivere una vita dignitosa.

È un debito che la Svizzera ufficiale ha nei confronti della comunità italiana e di altre comunità che continuano a soffrire sotto il peso della bruciante sfocatura. La Svizzera ufficiale lo deve anche a coloro che – volenti o nolenti – traggono un macabro vantaggio da questa eredità. È questo il motivo del loro silenzio?
Se non incominciamo a domandarcelo, non lo sapremo mai.

In attesa della Sua risposta e con un sentimento di stima per il Suo immenso lavoro al servizio della cosa pubblica, La saluta
Paola De Martin

Risposta della Consigliera federale Simonetta Sommaruga, Ottobre 2018.
Commento alla risposta della Consigliera federale Simonetta Sommaruga. Di Paola De Martin: Per arrivare bisogna partire, Novembre 2019.

 

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